Benvenuta estate.
Alla tua decisa maturità
m’affido.
Mi poserò ai tuoi soli,
ricambierò alla terra
in tanto sudore caldo
delle mie adempiute nutrizioni
i suoi veleni vitali.
Lascio la primavera
dietro di me
come un amore insano
d’adolescente.
Lascio i languori e le ottusità,
i sonni impossibili,
le faticose inerzie animali,
il tempo neutro e vuoto
in cui l’uomo è stagione.
Io che non spunto a febbraio coi mandorli,
non mi compiaccio all’arido sapore
di sasso che acuisce
il gusto dolce dell’acqua dei rivi,
alle gocciole chete
di nuvola randagia
che vanno in punta di piedi
in compagnia dei pensieri,
non colgo il biancospino;
chè amo i tempi fermi e le superfici chiare,
e ad ogni transizione di meriggio,
rotta l’astrale identità del mattino,
avverto gli spazi irritarsi,
e sento il limite e il male
che incrinano ogni cambio d’ora,
saluto nel sol d’estate
la forza dei giorni più eguali.
Ai punti estremi, alle stagioni violente,
come sotto il frantoio dei pericoli
dove ogni inquietudine si schianta
prendo le sole decisioni buone,
la mia fuggiasca fecondità
ritrovo.
Vincenzo Cardarelli
Sono trascorsi un paio di mesi da quando abbiamo fatto questa spedizione a L’Aquila. Stava iniziando l’estate e a ciò dedicavamo la poesia di Vincenzo Cardarelli e tutte le altre del repertorio di Parlarecoimuri che erano state pubblicate fino ad allora. Dedicavamo versi alla stagione e alla città, da cui molti, in seguito, ci hanno scritto, per dirci di aver trovato le poesie sui muri, per dire che erano piacevolmente stupiti, soprattutto per il fatto che qualcosa di vivo si muoveva tra case ancora in abbandono e macerie residue.
Il giorno che abbiamo attaccato le poesie sui muri aquilani, in pieno centro storico, era una giornata afosa e chiara, il silenzio regnava nelle strade, si riusciva a sentire il rumore dei voli compiuti dagli uccelli tra un sottotetto e l’altro, dove hanno costruito nidi, da quando gli abitanti umani non ci sono più. Di tanto in tanto, lenta, una macchina della polizia ci passava accanto, senza nemmeno fermarsi a chiederci cosa stessimo facendo.
Abbiamo attaccato decine e decine di poesie quel giorno ed è stato come entrare in una dimensione altra, distopica, nonostante tutto di grande fascino.
Torneremo a L’Aquila, magari d’inverno, quando le temperature si fanno molto rigide e il paesaggio urbano si congela nella sua immobilità ferma nel passato. Ci saranno altre parole, tante, ricche, giacché sono tanti a L’Aquila i muri senza più tetti, rimasti solo muri, con cui parlare.